lunedì 20 novembre 2017

Le no-go zones in Europa di Achille De Tommaso - 20-11-2017

Le no-go zones in Europa: aree di violenza, dove anche la polizia si rifiuta di entrare esistono veramente? Ci sono aree di alcune città europee di cui la polizia ha perso il controllo? Dove ambulanze e postini si rifiutano di andare? Dove i non-locali farebbero meglio a non recarvisi e dove vige una legge “parallela”?


Avete mai sentito parlare delle “no go zones europee ? Strano, perché sono aree di città europee al cui ingresso dicono si possa anche rischiare la vita. Se esistono, non è strano che esistano; ma può apparire strano che da noi non se ne parli molto.
Vi proporrò qualche informazione su queste zone; con un avviso importante e preliminare: alcuni media e alcuni sindaci e alcune polizie sono riluttanti ad ammettere che queste aree esistano così come definite (vediamo appresso la definizione di no-go zones); e magari spergiurano sul fatto che, si, sono aree a criminalità elevatissima; ma non tali da scoraggiarne completamente l’ingresso.
Anzi, ci sono due, abbastanza recenti e plateali, reazioni delle istituzioni, che rimarcano, circa queste zone, la loro non esistenza; (anche se però ammettono che in esse la criminalità sia elevatissima e il controllo della polizia inefficace). Entrambe le reazioni sono state generate dalla TV statunitense FoxNews, che cominciò a sollevare il problema no-go zones su Parigi a seguito dell’attentato di Charlie Hebdo, e si beccò una minaccia di querela dal relativo sindaco; querela mai condotta a termine. La seconda con Birmingham, che fu ripresa anche da Donald Trump, in uno dei suoi attacchi all’immigrazione incontrollata. In questo caso FoxNews ammise di aver esagerato e fece le sue scuse. Ma il caso era ormai sollevato; e, nella realtà, il passo indietro di FoxNews non convinse tutti, e alcuni andarono a fondo. Se avete voglia di leggere l’analisi delle scuse portate da FoxNews, leggete il link (13). Vi accorgerete che il problema che ebbe la TV fu quello di aver detto che Birmingham è una città totalmente mussulmana e dove i non-mussulmani non entrano. E questo fu giudicato falso: è solo in alcune parti di Birmingham (e di Bradford, di Luton, Leicester) dove pare sia sconsigliabile andare. E comunque, nel 2012, il professor Hamid Ghodse dell’ United NationsInternational Narcotics Control Board definì proprio alcune aree di Birmingham, Manchester e Liverpool come "no-go areas" gestite da trafficanti di droga (19). Tra l’altro, poiché le “no go zones” sono conosciute da 15 anni (v. appresso), può apparire strano che abbiano fatto scalpore solo nel 2015, con i fatti di FoxNews. Ma forse è perché è stata la prima volta in cui il tema è assurto al piccolo schermo.
Il problema, comunque non sembra essere solo quello che ci sia, in queste zone, un alto livello di criminalità fuori controllo; ma di quale etnia siano quelli che la praticano; e questo genera un tema politico anche di carattere internazionale. Chi viaggia molto, infatti, è pratico del fatto che ci siano zone di alcune città in cui qualsiasi concierge ti sconsiglia di andare, soprattutto se sei donna e soprattutto se è di notte. Ma il tema che ci sia una specifica etnia coinvolta nel crimine pare essere tabù. “Va bene parlare di crimine incontrollato – sembra che dicano le istituzioni – ma è errato indicare che vi siano particolari etnie coinvolte precipuamente”.
Io ho cercato di rifarmi a riscontri il più possibile autorevoli e oggettivi, e ve li propongo.
Innanzitutto la definizione (tratta dal dizionario Collins): “dicesi no-go area un’area che ha reputazione di essere una zona di violenza e di crimine; controllata da gruppi di persone che usano la forza per ostacolare l’ingresso di persone non desiderate. Compresa la polizia”. Una definizione meno “politically correct”, ma molto diffusa, però definisce invece queste zone come “quartieri dominati da etnie, che sono in gran parte esclusi ai non appartenenti a quell’etnia, a causa di una varietà di fattori, tra cui l'illegalità”. (Al di là della veridicità dell’esistenza di queste zone, sorge il dubbio che sia strano che il dizionario Collins e altri si siano scomodati ad inventarsi una definizione di qualcosa che non esiste…)
Le autorità si dice abbiano di fatto perso il controllo su queste zone; che spesso pare vengano anche bandite dalla fornitura di servizi pubblici di base, come i servizi antincendio e le ambulanze”. Si capisce comunque come questa definizione non molto “politically correct” possa disturbare le coscienze di istituzioni che 1. Non vogliano mettere a repentaglio l’immagine della propria città. 2. Non vogliano si possano ingenerare criteri di generalizzazione negativa nei confronti di comunità molto numerose al cui interno possa esservi una criminalità superiore alla media; e ciò per evitare una caccia alle streghe. Si comprende subito, però, come questa seconda accezione possa rivestire alti rischi per la sicurezza individuale.
A detta di alcuni media, poche nazioni europee sono prive di no-go zones; ma non è mia intenzione fare un escursus completo; ne ho scelte quindi tre, a mio parere significative: Belgio, Svezia e Francia; con alcune note sull’Italia. In rete troverete ampia documentazione su tutto il resto.
BELGIO
Sulla scia degli attacchi di Parigi del 2015, il comune di Molenbeek, nei sobborghi a est di Bruxelles, fu descritto in taluni rapporti mediatici come una zona “no-go”.(1) In esso, vengono riportati sia la violenza delle bande di criminali generici, sia il fondamentalismo islamico; fatti che hanno alimentato non solo la marginalizzazione degli abitanti di questo comune, ma anche la disperazione e l’impotenza delle autorità. 
Ebbene, dopo gli attacchi di Parigi il ministro degli Interni belga affermò che “il governo non ha controllato la situazione in Molenbeek” (2) e che  i legami dei terroristi con questo distretto rappresentano un “problema gigantesco”. Non so quanti, a suo tempo, seguirono gli interventi della polizia in questo quartiere: essa non fu in realtà un’opera di polizia, ma di guerra; con autoblindo e forze dell’ordine dotate di armi e attrezzature da guerra.
La maggior parte dei belgi rimase un po’ stupefatta di sentire che la polizia aveva individuato gli indirizzi dei possibili attentatori a Bruxelles e arrestato i sospetti in meno di 24 ore. Tuttavia, pochi rimasero in realtà sorpresi, poi, nell’apprendere che i progetti per gli atti di terrorismo a Parigi si erano sviluppati a Molenbeek, un comune che era ed è stato a lungo come un magnete per i criminali di tutti i tipi, jihadisti compresi. Era ovvio che la polizia, in questo caso, fosse andata abbastanza “a colpo sicuro” nell’individuazione dei terroristi, probabilmente perché Molenbeek è riconosciuta anche come una enclave di integralismo.
C’è comunque il possibile dubbio che non siano aree dominate da mussulmani; ma dalla criminalità in generale, mussulmani compresi. Tutto è possibile, ma, guardando con attenzione, c’è una buona ragione perchè la polizia andasse a Molenbeek a colpo sicuro: perché questo quartiere è stato collegato a quasi tutti gli attentati legati al terrorismo in Belgio negli ultimi anni. Il marocchino Ayoub el-Khazzani, che ha aperto il fuoco con un Kalashnikov su un treno ad alta velocità, era vissuto a Molenbeek. Il franco-algerino Mehdi Nemmouche, che uccise quattro persone nel Museo ebraico di Bruxelles lo scorso anno, ha trascorso molto tempo a Molenbeek. E i due terroristi uccisi dalla polizia belga in una sparatoria nella città orientale di Verviers a gennaio erano di Molenbeek.
Coincidenze ? Oltre ad essere casa di molti marocchini e turchi, Molenbeek è anche una delle aree più povere del paese. Ha un tasso di disoccupazione del 30% (in fondo come Crotone, in Italia…) e uno su quattro dei suoi 95.000 abitanti non ha un passaporto belga. Sicuramente sia le bande di criminali, che il radicalismo islamico hanno nutrito la marginalizzazione e la disperazione di Molenbeek . La polizia dice comunque che le più pericolose delle circa 30 bande di Bruxelles provengono da Molenbeek. Non so se sia una “no-go zone”, ma sicuramente non è facile entrarvi a cuor leggero.
SVEZIA
Un caso molto particolare è quello della Svezia; infatti il governo svedese, a seguito di varie inchieste pubblicate da media stranieri, afferma lapidariamente che “le no-go zones non esistono”.
E’ però anche vero che, in un rapporto della polizia svedese del 2016 (9), essa elenchi 53 “aree esposte” (utsatta omraden), di cui 15 sono “particolarmente esposte”. Il Ministero degli Interni definisce le aree “esposte” come aree di basso livello socioeconomico e con alto livello di criminalità. Un’area invece “particolarmente esposta”, viene definita, in aggiunta, come un’area i cui abitanti sono riluttanti a seguire le norme legali, in cui c’è difficoltà della polizia a condurre il proprio lavoro, in cui c’è esistenza di “strutture sociali parallele” ed estremismo etnico violento. Queste definizioni sono usate dalla polizia anche per adattare il loro equipaggiamento quando le visitano e per, ad esempio, non agirvi mai con un agente solo. Il rapporto fornisce delle raccomandazioni; e termina dicendo che i problemi di queste aree non possono essere risolti dalla polizia, ma che necessitano di attenzione unitaria da parte di tutte le istituzioni politiche. Auspicando che venga creata una funzione appropriata con responsabilità nazionale.
Se queste aree “particolarmente esposte” non possono definirsi “no go zones”, hanno però caratteristiche molto simili ad esse.
E comunque ci sono anche altre testimonianze, circa le no-go zones; come quella dell’intervista video (10) fatta nel febbraio 2017 dalla giornalista Paulina Neuding del Weekly Standard’s, al capo degli autisti delle ambulanze svedesi. In essa l’intervistato elenca delle aree dove è troppo pericoloso portare soccorsi senza il supporto della polizia, utilizzando proprio il termine “no-go zones”.
E nel gennaio 2017, il giornalista Harry Walker del Daily Express, pubblicò un articolo (11) dal titolo: ”Svezia ad un punto di rottura, la polizia chiede aiuto ai cittadini per contrastare il fortissimo aumento di criminalità”. Secondo quanto affermava nell’intervista il capo della polizia di Malmo (una cittadina di 350.000 abitanti), essa aveva aperte investigazioni su 11 omicidi e 80 tentati omicidi; in aggiunta ad altri crimini violenti come rapine e stupri. Questa è la seconda impennata di violenza negli ultimi 12 mesi: nel luglio 2016 la polizia nazionale fu schierata a Malmo per contenere un’ondata di attentati fatti con bombe ed armi pesanti. Può sembrare strano come i nostri media, sempre attenti a riportare catastrofi, non abbiano scritto molto sul tema. Ma molto probabilmente è anche perché le istituzioni svedesi ed altri media negano che vi sia un problema. Guardate ad esempio questo clip video dove viene spiegato come leggere alcune statistiche di crimini (16); e anche questo, dove viene spiegata la “paura di essere politically incorrect” (17); se guardate questo video, leggete anche i commenti sotto, ancora più interessanti.


FRANCIA
Ma quello francese è l’esempio più interessante.
Nell'ottobre 2011, una nota di 2,200 pagine, "Banlieue de la République" (periferie della Repubblica) (3), ha rilevato che la Seine-Saint-Denis e altre periferie parigine stanno diventando "aree separatiste islamiche" tagliate fuori dallo Stato francese e dove la legge islamica della Sharia sta rapidamente prendendo il posto della legge francese. Il rapporto afferma che gli immigrati musulmani stanno sempre più rifiutando i valori francesi e sempre più si immergono nell'Islam radicale. Il rapporto, commissionato dall'influente think tank francese, l'Institut Montaigne, è stato diretto da Gilles Kepel, scienziato politico e specialista dell'Islam molto rispettato, insieme a cinque altri ricercatori francesi. Gli autori della relazione hanno mostrato che la Francia - che ora ha 6,5 ​​milioni di musulmani (la più grande popolazione musulmana nell'Unione europea), è sulla soglia di una grande esplosione sociale a causa del fallimento dell’integrazione dei mussulmani nella società francese.
Il problema più grave di questa mancanza di integrazione è la violenza e la mancanza di sicurezza che genera. Il rapporto elenca numerose fonti francesi; governative, accademiche e media, che hanno riferito le difficoltà che incontrano le autorità francesi nel controllo di queste aree. In particolare per contrastare le bande criminali di immigrati che esercitano violenza contro non immigranti francesi; insieme all’enorme sfida di cercare di integrare gli immigrati islamici che vi vivono. Come afferma la relazione, entrambi gli schieramenti politici francesi, di destra e di sinistra, hanno fatto riferimento a queste aree come "aree di illegalità" in cui "la polizia non è bene accolta".
Il termine “no-go zone”, infatti, è stato probabilmente utilizzato per la prima volta da David Ignatius nel 2002 che, in The New York Times, scrisse, circa la Francia: "Vi sono aree in Francia dove bande arabe vandalizzano regolarmente: sono le periferie abitate principalmente da nordafricani, che sono diventate zone da-non-percorrere-di notte; e i francesi pare si disinteressino del problema " (4). “Uno dei migliori esempi di questo degrado –aggiunge - è La Courneuve, un comune della regione di Parigi, dove la polizia mi ha invitato caldamente a non andare”.
Nel 2010, Raphaël Stainville, giornalista del quotidiano Le Figaro definì alcuni quartieri della città di Perpignan, del sud della Francia, come "zone senza legge", affermando che erano diventate troppo pericolose per viaggiarvi di notte. Aggiunse che lo stesso era vero in alcune parti di Béziers e Nîmes (6) Interessante la frase del giornalista, che definisce, i francesi non migrati, in quei sobborghi, come “esuli” nella loro stessa nazione. Nel 2012, anche Gilles Demailly, il sindaco della città francese Amiens (10% di immigrati), a seguito di numerosi e continue scorribande, definì la parte settentrionale della sua città una “zona senza legge”, dove non si poteva più ordinare una pizza o chiedere un medico. (7) Nel 2014, Fabrice Balanche, uno studioso del Medio Oriente, ha etichettato la città settentrionale di Roubaix e parti di Marseille, come "mini stati islamici", affermando che l'autorità dello Stato è assolutamente assente (6). Le riviste americane Newsweek e The New Republic hanno anche usato lo stesso termine per descrivere parti della Francia.
Nel gennaio 2015, dopo l’attentato terroristico del Charlie Hebdo, vari media americani, inclusa Fox News, diedero evidenza di no-go zones in Europa, e soprattutto in Francia. Dicendo anche che quelle che il Ministero degli Interni francese descrive come “sensitive urban zones” (archivio ministero con data 11 novembre 2015) corrispondono molto alla descrizione (v. sopra) di “no-go zones”; ad esempio non hanno stazioni di polizia locali, hanno difficoltà di integrazione degli abitanti, alta disoccupazione e povertà e criminalità superiore alla media. Il sindaco di Parigi, Hanne Hidalgo, dichiarò che avrebbe querelato Fox News per danni di immagine; ma non si ha traccia della querela.
Ma la testimonianza più toccante e scioccante e, assieme, esplicativa di molte delle cose redatte in questo mio scritto, viene da un libro fatto da un poliziotto francese e uscito nelle librerie francesi in questi giorni (novembre 2017). Il suo titolo è “Colère de flic” (12); e ci descrive la rabbia di un poliziotto che spiega tutto ciò che le Forze dell’Ordine debbono subire giornalmente, mentre ai “piani alti” e per ragioni politiche si cerca di mascherare gli eventi. E’ la rabbia di un poliziotto che non ne può più di essere insolentito quando ferma un teppista che ruba o lo minaccia con un coltello; che non ne può più di essere considerato fascista quando chiede di identificare (come richiede la legge francese) le donne velate che portano a scuola i figli. Ci descrive come quattro suoi colleghi abbiano rischiato di finire bruciati da bombe molotov tirate da teppisti della periferia parigina. Il poliziotto, certo Guillaume Lebeau, 30 anni, si è messo alla testa di quelli che sono diventati migliaia di suoi colleghi stanchi di vivere assediati e senza mezzi e mandati allo sbaraglio nelle operazioni di controllo, che si concludono sempre con “arresti di persone regolarmente inviate a casa il giorno dopo”. Lebeau si è messo alla testa di un movimento definito MPC (Mobilisation des policiers en colère), anche contro la politica dell’ultimo Ministro degli interni hollandiano, che definì teppistelli gli assalitori armati di molotov. Il libro, nelle sue 289 pagine, spiega come sia diventato impossibile per i 144.000 poliziotti francesi fare il proprio lavoro, far rispettare la legge, proteggere i cittadini e garantirne la sicurezza. Il poliziotto afferma “siamo noi le vere vittime dell’esclusione sociale nella banlieu: accusati di razzismo e non considerati; quando non spremuti, non aggrediti, feriti, uccisi“. La legge francese raccomanda, ad esempio, di fare attenzione ai minorenni e di trattarli con sensibilità; e questo viene sempre fatto. Ma il problema è che Lebeau, nel suo commissariato è costretto spesso a fare i conti con minorenni che sono delinquenti feroci, abili e ben informati sulla protezione che garantisce la legge francese. E più questi ragazzini, colti in fragrante, vengono arrestati e subito liberati, più diventano prepotenti, arroganti e aggressivi. Molti ex-ragazzini sono oggi diventati i boss del quartiere, spacciano droga e compiono crimini. “Molti miei colleghi ed io ci chiediamo se non sia venuto il momento di rivedere la legge circa i crimini dei minorenni” afferma il poliziotto. Gennevilliers (il paese dove opera Lebeau) è una piccola capitale della delinquenza minorile: il 70% della criminalità locale è fatta da ragazzini sotto i 18 anni.
“Con gli islamici, cioè con i figli e i nipoti degli immigrati, la vita dei poliziotti di periferia è ancora più dura. Guai ad esempio a controllare una donna velata: si forma subito un capannello e ci può anche scappare una coltellata; i parenti-cugini-cognati sanno dove abiti e la sera – racconta Lebeau – ti aspettano sotto casa. L’anno scorso, a Magnanville, marito e moglie poliziotti furono uccisi da un marocchino. I controlli di routine sono quelli più ad alto rischio nei quartieri a maggioranza mussulmana (tutto il nord-ovest parigino), tanto che dai vertici della polizia è arrivata di recente una circolare che invita ad agire lontano dalle moschee“. Quando si diffuse la notizia che stava scrivendo il libro, l’Ispettorato Interno (IGPN) che vigila sul comportamento dei poliziotti convocò Lebeau, ma non trovò nessun estremo disciplinare, in quanto veniva raccontata la verità.
Come ho detto prima, in rete troverete anche una corposa documentazione con scritti che negano l’esistenza di no-go zones a Parigi. Ma c’è comunque anche un’app che vi permette di essere avvisati se entrate in una di esse (14) (ed è strano che si perda tempo a fare app per cose che non esistono…).


UNA BREVE NOTA SULL’ITALIA
In Italia non esistono le no-go zones propriamente dette, ma esistono, secondo quanto riportato a gennaio da Franco Gabrielli in un’audizione parlamentale “periferie più a rischio”.
A Milano sono i quartieri Lambrate, Mecenate, Quarto Oggiaro e Scalo Romana, in questi quartieri imperversano le bande di giovani sudamericani e a gennaio il sindaco di Milano chiese l’intervento dell’esercito.
A Roma i quartieri a rischio sono San Basilio, Tor Sapienza, Tor Bella Monaca e Collatino. In particolare Gabrielli sottolineò come a Tor Bella Monaca “risiedono 40.000 persone, con una forte presenza di immigrati marocchini, tunisini, nigeriani e indiani. Occupazione abusiva e delinquenza minorile sono, in queste aree, all’ordine del giorno”.
La quota degli stranieri sui crimini denunciati è alta, talvolta molto alta. Supera il 25 per cento per gli omicidi consumati, il 30 per cento per quelli tentati e per le lesioni dolose, il 40 per cento per le rapine in pubblica via e quelle contro gli esercizi commerciali, il 50 per cento per le rapine in abitazione, i furti in appartamento e contro gli esercizi commerciali, addirittura il 60 per cento per i borseggi. Come non bastasse, queste percentuali presentano valori ancora maggiori nelle regioni centro-settentrionali. Nelle grandi città, la quota degli stranieri denunciati per un borseggio raggiunge il 74 per cento a Bologna, il 79 per cento a Firenze, il 90 per cento a Milano,
Però non abbiamo no-go zones.

RIFLESSIONI
Le aree di elevata delinquenza ci sono sempre state, in molte città europee ed extraeuropee; aree dove da decenni al turista viene altamente sconsigliato di andare. Allora cosa c’è di nuovo ? Il fatto che ci siano particolari etnie coinvolte? Può darsi, ma i veri temi, che danno oggi da riflettere, a mio parere, sono soprattutto che:
  1. La polizia ammette di aver perso il controllo di queste aree
  2. In queste aree esiste una “legge parallela” (ad esempio le sharia-no-go-zones) (15)(18)
  3. In queste aree i servizi pubblici vengono forniti con riluttanza.

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  1. https://www.independent.co.uk/news/world/europe/paris-terror-attacks-visiting-molenbeek-the-police-no-go-zone-that-was-home-to-two-of-the-gunmen-a6735551.html
  2. https://www.nytimes.com/live/paris-attacks-live-updates/belgium-doesnt-have-control-over-molenbeek-interior-minister-says/
  3. http://www.institutmontaigne.org/fr/publications/banlieue-de-la-republique-0
  4. https://www.nytimes.com/2002/04/27/opinion/27iht-edignatius_ed3__0.html
  5. https://books.google.com/books?id=Zn7BAgAAQBAJ
  6. http://www.lefigaro.fr/actualite-france/2010/07/31/01016-20100731ARTFIG00004-insecurite-c-etait-intenable-nous-sommes-partis.php
  7. http://www.europe1.fr/france/amiens-nord-une-zone-de-non-droit-1204941
  8. https://www.centerforsecuritypolicy.org/2015/01/20/if-there-are-no-no-go-zones-why-has-the-state-dept-tried-to-community-organizing-them/
  9. https://polisen.se/Global/www%20och%20Intrapolis/%C3%96vriga%20rapporter/Utsatta-omraden-sociala-risker-kollektiv-formaga-o-oonskade-handelser.pdf
  10. http://www.weeklystandard.com/video-head-of-ambulance-union-confirms-no-go-zones-in-sweden/article/2007000
  11. http://www.express.co.uk/news/world/759946/Swedish-violence-crime-police-urgent-plea-malm-Rosengard
  12. http://www.lefigaro.fr/actualite-france/2017/11/02/01016-20171102ARTFIG00107-guillaume-lebeau-un-flic-en-colere.php
  13. http://www.frontpagemag.com/fpm/249744/no-no-go-zones-really-robert-spencer
  14. http://www.dailymail.co.uk/news/article-4647330/Paris-gets-app-warning-people-no-zone.html
  15. https://www.youtube.com/watch?v=FGDeWdGoCVc
  16. https://www.youtube.com/watch?v=9fgJA1jEyqc
  17. https://www.youtube.com/watch?v=YtMq1MS4KGs
  18. http://www.worldtribune.com/report-from-berlin-islamist-sharia-police-openly-terrorize-migrants-forbid-assimilation/
  19. http://www.independent.co.uk/news/uk/crime/un-says-liverpool-has-drug-related-no-go-areas-like-those-in-brazilian-favelas-7462654.html

sabato 2 settembre 2017

Migranti: l’invasione cinese dell’Africa di Achille De Tommaso 2-9-2017

Quando gli esseri umani avranno riempito la Terra, devastato le sue risorse naturali, resa l’aria irrespirabile per l’inquinamento, cercheranno un altro pianeta per insediarsi. Manderanno prima navicelle di esplorazione, con pochi esploratori; insedieranno i primi coloni e cominceranno a preparare le strutture per il grosso della popolazione. E poi, quando tutto sarà pronto, partiranno in massa. Se avranno la fortuna di trovare degli indigeni deboli, potranno sottometterli.


Forse questo accadrà fra qualche migliaio di anni; ma la Cina pare lo stia già facendo oggi: verso l’Africa.
Ma l’idea è relativamente remota: il 5 giugno 1873, in una lettera al The Times, Sir Francis Galton, cugino di Charles Darwin, ma anche importante esploratore africano, illustrò un coraggioso (coraggioso per l'epoca, oggi lo considereremmo assolutamente barbaro e offensivo) nuovo metodo per 'domare' e colonizzare quello che allora era conosciuto come il Continente Nero.
"La mia proposta, come parte della nostra politica nazionale, è quella di incoraggiare gli insediamenti cinesi; ciò nella convinzione che gli immigrati cinesi non solo potranno mantenere ivi le loro attuali condizioni; ma che, moltiplicandosi, i loro discendenti soppianteranno la razza inferiore dei negri" .
"In questo modo, io mi aspetto che il bacino africano, oggi scarsamente occupato da pigri selvaggi, in pochi anni potrebbe essere gestito dai laboriosi e ordinati cinesi; i quali potrebbero vivere, o come comunità "associata"; oppure con sistemi di governo separati, in libertà, ognuno con le proprie leggi. “- scrisse Galton .
Nonostante un molto dibattuto intervento sul tema in Parlamento e un acceso dibattito nei saloni della Royal Geographic Society, tenutosi due mesi dopo, Galton insistette sul fatto che «la storia del mondo racconta la storia di spostamenti continui delle popolazioni, ognuna poi rimpiazzata da un successore più degno; e l'umanità, in questo modo, ci guadagna». Per inciso, Galton era una figura controversa, infatti era anche il pioniere dell'eugenetica, la teoria utilizzata da Hitler per cercare di realizzare i suoi sogni di una razza tedesca superiore.
Alla fine, i grandi piani di reinsediamento di Galton furono frenati perché, a quel tempo, per la Gran Bretagna, c'erano cose molto importanti dell'Africa da gestire.
Ma questo accadeva più di 100 anni fa, quando leggendari esploratori come Livingstone, Speke e Burton si affannavano a trovare la fonte del Nilo.
Eppure Sir Francis Galton, oggi, può ben apparire come un veggente. La sua visione si sta avverando: magari non esattamente nel modo da lui immaginato; ma è in corso una dirompente e silenziosa invasione dell'Africa. Col più grande sommovimento di persone che il mondo abbia mai visto, la Cina sta oggi lavorando per trasformare l'intero continente Africano in una sua colonia. Nell’apparente indifferenza dell’ONU e nell’ignoranza di molti.

L’INVASIONE CINESE
Ciò avviene con qualche assonanza con la spinta colonialista dell'Occidente avvenuta nei secoli XVIII e XIX ; ma su una scala molto più vasta e determinata. I cinesi, infatti, non vogliono solo “colonizzare”, ma soprattutto “occupare”: i governanti cinesi ritengono che l'Africa, in realtà, possa diventare un loro stato "satellite", risolvendo in un colpo i propri problemi di sovrappopolazione e la carenza di risorse naturali.
In pratica, con poca fanfara, più di 750.000 cinesi si sono stabiliti in Africa negli ultimi dieci anni; e molti altri sono in viaggio.
La strategia è stata attentamente elaborata dai funzionari di Pechino, dove un esperto ha stimato che alla fine la Cina avrà bisogno di inviare 300-500 milioni (leggasi milioni) di persone in Africa per risolvere i suoi problemi di sovrappopolazione e inquinamento.
Dalla Nigeria a nord, alla Guinea Equatoriale, Gabon e Angola in Occidente, in tutto il Ciad e Sudan a est e sud attraverso Zambia, Zimbabwe e Mozambico, la Cina ha preso in una morsa un continente che i funzionari programmatori cinesi hanno deciso fosse cruciale per la sopravvivenza a lungo termine della superpotenza che in 50 anni ha quasi triplicato la sua popolazione: da 500 milioni ad 1,3 miliardi.
Il programma è denominato "One China in Africa"; e coinvolge il commercio, gli insediamenti e …il “sostegno politico”.

COMMERCIO E MINIERE
Per continuare a svilupparsi, la Cina è alla disperata ricerca di nuovi mercati. E l'Africa, con le norme di salute e di sicurezza inesistenti nei confronti di merci scadenti e pericolose, è la destinazione perfetta. Il risultato è che il fatturato negli scambi tra Africa e Cina è salito dai £ 5 milioni ogni anno un decennio fa a £ 6 miliardi di oggi.
I piani appaiono bene in pista. In tutta l'Africa sventola la bandiera rossa della Cina; e molti contratti commerciali sono stati ben strutturati per aggiudicarle materie prime sul lungo termine: petrolio, cobalto, platino, oro e altri minerali. Nuove ambasciate e vie aeree si stanno aprendo. La nuova élite cinese del continente può essere vista ovunque in Africa: gente che può permettersi di comprare in boutique costose, guidare Mercedes e limousine BMW, spedendo i propri figli a scuole private esclusive.
Le strade africane sono intasate da autobus cinesi, che portano persone ai mercati, pieni di beni cinesi a buon mercato. Più di mille miglia di nuove ferrovie cinesi attraversano il continente africano, portando miliardi di tonnellate di legname, diamanti e oro, spesso registrati illegalmente. I treni sono collegati a porti distribuiti su tutta la costa africana, attrezzati per portare le merci a Pechino (dopo aver magari scaricato in Africa carichi di giocattoli economici fatti in Cina e abbigliamento economico).
La Cina ha fame di territorio, cibo ed energia. Pur rappresentando un quinto della popolazione mondiale, il suo consumo di petrolio è aumentato di 35 volte nell'ultimo decennio e l'Africa gliene fornisce ora un terzo; Anche le importazioni di acciaio, rame e alluminio sono enormi, Pechino divora l'80% delle forniture mondiali.
Alcuni numeri: l’80% delle risorse mondiali di rame va in Cina; il 70% del legname di tutta l’Africa va in Cina; con foreste primordiali che vengono distrutte. La terra africana è violentata da miniere giganti finanziate da cinesi, con lavoratori pagati meno di £ 1 al giorno; spesso minorenni. Ad esempio: Il 60% di tutto il cobalto mondiale è in Africa; la maggior parte è nella Repubblica Democratica del Congo. Esso viene estratto con manodopera dai 7 anni in su, pagata 2 dollari per 12 ore al giorno; il 90% va in Cina. Enormi dighe vengono costruite, inondando stupende riserve naturali.
Anche se i numeri non sono certi, si stima in 50 miliardi di dollari l’anno la somma degli investimenti di Pechino in Africa; nell’ultimo anno sono aumentati del 31%. Basti pensare al costo della ferrovia in costruzione, che dalla Repubblica Centrafricana raggiungerà il porto di Dar Es Salam. La Cina sta colonizzando l’Africa, con poco rumore e con legittimi accordi politico-commerciali.

INSEDIAMENTI CINESI
La Cina ha grandissimo bisogno di materie prime; ma il progetto cinese più ambizioso è quello di spostare dalla Cina all’Africa 300/500 milioni di cinesi (ad oggi ce ne sono attorno al milione).
La Cina ha 10 milioni di chilometri quadrati di superficie e 1,4 miliardi di abitanti.
L’Africa ha 30 milioni di chilometri quadrati e 1 miliardo di abitanti.
La Cina lavora sul lungo termine; e prepara in Africa le città cinesi del futuro. Città costruite con ottimi materiali, con giardini e tecnologie avanzate; case che costano oltre i 100.000 dollari, e che quindi gli africani possono difficilmente permettersi. Infatti queste case, oggi, sono vuote e danno luogo a “città fantasma”. Il più bell’esempio è “Nova Cidade de Kilamba” costata più di 2 miliardi di sterline, 30 km a sud di Luanda, capitale dell’Angola. Si tratta di 750 edifici a 8 piani; capienza 500.000 abitanti, 12 scuole, 100 spazi commerciali. E’ vuota; destinata a cinesi in arrivo? Il costo di un appartamento varia dai 120.000 ai 250.000 dollari e quindi appare poco proponibile ad un angolano medio, che guadagna circa 5.000 dollari l’anno. Altri insediamenti delle stesse dimensioni sono sorti a Dar es Salaam e a Nairobi. Si può dire che la Cina abbia esteso i suoi insediamenti dalla Nigeria al nord, in Guinea Equatoriale, Gabon e Angola a ovest, attraverso il Ciad e il Sudan ad est e a sud attraverso lo Zambia, lo Zimbabwe e il Mozambico. In questi luoghi i cinesi hanno creato delle comunità chiuse che, molto spesso, escludono la gente di colore.

In tutto questo grande continente, la presenza cinese si gonfia come in un'alluvione. L’Angola possiede una propria "Chinatown", così come molte grandi città africane come Dar es Salaam e Nairobi. E come molte città occidentali.
Esclusivi "resort", che servono solo cibo cinese e dove non sono ammessi neri, vengono costruiti in tutto il continente. Per preparare il terreno, sorgono come funghi gli “istituti Confucio”, centri di cultura cinese generale e non di carattere religioso; finanziati dallo stato cinese; gli istituti sono cresciuti in tutta l'Africa, fino agli stati rurali di Burundi e Ruanda.
Da Nigeria a nord, alla Guinea Equatoriale, Gabon e Angola in Occidente, in tutto il Ciad e Sudan a est e sud attraverso Angola, Nigeria, Guinea Equadoriale, Ciad, Mozambico, Sudan, Zambia, Zimbawe, Kenya, Tanzania; questi sono i paesi dove la presenza cinese aumenta ogni anno a ritmi sostenuti; con industrie, infrastrutture, culture agricole ed edilizia residenziale. Gli africani vengono tenuti lontani dalle città cinesi anche se i loro mercati vendono prodotti made in China.

IL “SUPPORTO POLITICO”
I vari dittatori africani, che dovrebbero tutelare i loro popoli, in realtà preferiscono fare affari con i cinesi e alle loro condizioni visto che vengono pagati in contanti e riforniti di armi e munizioni per le guerre intestine che da sempre flagellano l'Africa.
Nel Corno D’Africa, a Gibuti, è stata costruita la prima base militare permanente all’estero dell’esercito cinese, a pochi chilometri dalla base americana. Militari cinesi sono anche in Mali, Sudan, Nigeria; e hanno comprato importanti porti in Africa e nel Pireo.
Ma c'è anche un aspetto sinistro di questa invasione: le armi. Anche se la Cina è da sempre il terzo esportatore di armi al mondo, dopo USA e Russia (l’Italia è ottava), negli ultimi quattro anni il suo export di armi è cresciuto del 74% rispetto ai quattro anni precedenti. Aerei da guerra cinesi ormai sfrecciano regolarmente nel cielo africano; fucili d'assalto e granate cinesi sono utilizzati dappertutto in Africa per alimentare le innumerevoli cruente guerre civili (talvolta distruggendo gli stessi materiali che i cinesi stavano comprando...).
Ad esempio lo Zimbabwe; il cui dittatore Robert Mugabe disse anni fa: 'Dobbiamo smettere di guardare all'Occidente e fraternizzare con l'Oriente'. Infatti, dal momento in cui gli Stati Uniti e la Gran Bretagna gli hanno imposto sanzioni nel 2003, Mugabe ha corteggiato i cinesi, offrendo varie concessioni di estrazione mineraria in cambio di armi e denaro. La Cina finanzia la dittatura di Mugabe da tempo; con alta tecnologia, elicotteri, armi; da usare spesso contro il suo stesso popolo.
Mugabe stesso ha ricevuto personalmente centinaia di milioni di sterline da fonti cinesi; e orchestra la sua campagna di terrore da una villa di 25 camere da letto in stile pagoda costruita dai cinesi. La maggior parte della sua fortuna, stimata in un miliardo di dollari si ritiene sia stata spillata via dai prestiti cinesi. L'imponente edificio grigio di ZANU-PF, suo partito di governo, è stato pagato e costruito dai cinesi.
Malgrado la buona eredità coloniale della Gran Bretagna con reti di strade, ferrovie e scuole, gli inglesi non sono oggi benvisti. Secondo un diplomatico: "Con la Cina è più facile fare affari, perché non si preoccupa dei diritti umani in Africa, proprio come non si preoccupa di questi diritti nel proprio paese. L'unica cosa che interessa ai cinesi sono i soldi”.
E questa affermazione è tragicamente vera anche nel Sudan.
Anzi, in nessun posto è più vero che in Sudan. Il grande stato africano ricco di petrolio, è in preda al genocidio di centinaia di migliaia di contadini neri e non arabi nel Sudan meridionale. E, grazie alle sue forniture di armi e aiuti, la Cina è stata accusata di supportare uno scandalo umanitario. Le atrocità in Sudan sono infatti state descritte dagli Stati Uniti come «la peggiore crisi dei diritti umani nel mondo oggi».
Il governo di Khartoum ha aiutato la temuta milizia di Janjaweed a stuprare e uccidere più di 350.000 persone.
Dopo aver combattuto per anni contro i poteri coloniali bianchi della Gran Bretagna, Francia, Belgio e Germania, i leader africani dopo l'indipendenza sono felici di fare affari con la Cina per una sola ragione: il denaro.
I cinesi, che ora acquistano la metà di tutto il petrolio del Sudan, hanno felicemente fornito veicoli blindati, aerei e milioni di proiettili e granate in cambio di contratti. Circa un miliardo di soldi cinesi hanno finanziato la spesa per armi.
Secondo Human Rights First, organizzazione leader della difesa dei diritti umani, fucili d'assalto AK-47 cinesi, lanciagranate e munizioni per fucili e pistole pesanti continuano a fluire nel Darfur, costellato da giganteschi campi per rifugiati, ognuno contenente centinaia di migliaia di persone.
Tra il 2003 e il 2006, la Cina ha venduto al Sudan 55 milioni di dollari di armi leggere, sfidando l'embargo delle armi delle Nazioni Unite.
Sebbene due milioni di persone siano state sradicate dalle loro case per la guerra, la Cina ha ripetutamente ostacolato le denunce delle Nazioni Unite per il regime sudanese.
In Congo, più di £ 2 miliardi sono stati "prestati" al governo. In Angola, sono stati pagati 3 miliardi di sterline in cambio di petrolio. In Nigeria, più di £ 5 miliardi.
Nella Guinea Equatoriale (dove il presidente appese pubblicamente il suo predecessore in una gabbia sospesa in un teatro prima di farlo uccidere), le imprese cinesi aiutano il dittatore a costruire una capitale completamente nuova, piena di grattacieli e, naturalmente, di ristoranti cinesi.
Mentre i prestiti occidentali sono legati a condizioni relative allo sviluppo di riforme democratiche e sulla necessità di "trasparenza" nell'utilizzare i soldi (termine diplomatico per garantire che i dittatori non intaschino personalmente milioni), i cinesi si sono invece dimostrati più rilassati in merito a ciò che venga fatto con i loro miliardi. Infatti, pochi di essi raggiungono gli 800 milioni di persone povere del continente; molto va dritto nelle tasche dei dittatori. In Africa, la corruzione è un settore multi-miliardario e molti esperti ritengono che la Cina alimenti questo cancro.
I cinesi hanno disprezzo di tali critiche. Per loro, il business in Africa è fatto di pragmatismo, non di diritti umani. "Il commercio è fare affari", afferma il vice ministro degli Esteri cinese Zhou Wenzhong, aggiungendo che Pechino non interferisce con gli affari "interni" dei paesi. "Cerchiamo di separare la politica dal business", dice.

IL LAVORO “INDOTTO” E L’OCCUPAZIONE
Mentre questa generosità è bene accolta dai dittatori africani, il popolo africano è molto meno felice; anzi. La gente di colore non viene impiegata per lavorare nei vari cantieri, sono ritenuti un popolo di fannulloni pigri e poco qualificati e quindi sostituiti da personale cinese, spesso sbarcato direttamente dalla Cina. Non solo, i cinesi, oltre a spingere già centinaia di migliaia di concittadini a stabilirsi in Africa, pare che abbiano anche lì spedito molti loro detenuti cinesi; al fine di “ottimizzare” i costi di produzione.
Ci sono state anche delle rivolte in Zambia, Angola e Congo sull'invasione di lavoratori migranti cinesi. Nell'Angola, però, il governo ha convenuto che il 70 per cento delle opere pubbliche debba andare ad imprese cinesi, la maggior parte delle quali non impiegano angolani.
Questo sta deprimendo la produzione nazionale tradizionale. In Kenia, ad esempio, oggi solo dieci fabbriche tessili tradizionali producono, rispetto alle 200 di cinque anni fa, mentre la Cina scoraggia i locali circa la produzione di souvenir "africani".
Un secolo dopo le parole che Sir Francis Galton usò per descrivere l'Africa tutto si avvera, e i cinesi sono lì per rimanere.

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