mercoledì 14 dicembre 2016

Industria 4.0, gli impatti di lungo periodo sul sistema socio-economico

Industria 4.0, gli impatti di lungo periodo sul sistema socio-economico

Industry 4.0 è molto di più di un nuovo metodo di produzione. Ha molti vantaggi, ma anche sfide. Come la sicurezza, la necessità di “investimenti al buio”, gli aspetti sociali e politici. Tutti fattori avvolti ancora in grande indeterminazione. Facciamo il quadro
14 Dic 2016


La datazione del termine “Industry 4.0” è molto probabilmente il 2011, quando Henning Kagermann, capo della Acatech (Accademia Nazionale Tedesca di Scienze e Tecnologia) usò esattamente questo termine per descrivere un progetto sponsorizzato dal governo. Possiamo quindi anche ritenere che questo “movimento” sia iniziato in Germania da alcuni anni; e già ora, infatti, alcune delle più importanti aziende tedesche hanno fatto buoni progressi in questa direzione: il loro elenco comprende Basf, Bosch, Daimler, Deutsche Telekom, Klokner & CO. e Trumpf. Il fenomeno si sta però alacremente diffondendo un po’ dappertutto; in particolare negli USA, Giappone, Cina, le “Nordic”, e UK. E molte di queste nazioni hanno già sopravanzato la Germania (es. Giappone). Alcuni osservatori considerano che la stessa Germania, leader mondiale nella produzione tecnologica, potrebbe ricevere sensibili danni da questa rivoluzione, che agevola anche piccole aziende e paesi emergenti.
Come noto il termine Industry 4.0 si riferisce ad un insieme di diversi settori digitali innovativi; quasi tutti oggi riferentisi al segmento manifatturiero. Questo insieme contiene: robotica avanzata e intelligenza artificiale, sensoristica sofisticata, cloud computing, IoT, data capture e analitics, 3D printing, software-as-a- service, marketing digitale, dispositivi mobili, algoritmi per la guida senza pilota o comunque autonoma, e molto altro. Il tutto incapsulato in una catena del valore interoperabile a livello globale e quindi condivisibile da molte aziende di ogni dimensione in nazioni diverse. Queste tecnologie sono spesso pensate come separate, ma quando esse si integrano, sono in grado di fondere assieme il mondo fisico con quello virtuale: un mutamento che è una rivoluzione e che è interessante capire.
Nel 2015 PWC ha elaborato un rapporto raccogliendo dati su più di 2.000 aziende di 26 paesi; includendo settori come aerospaziale, difesa, automotive, chimica, elettronica, engineering, costruzioni, produzione di carta e di packaging, trasporti e logistica. Un terzo degli intervistati ha affermato che le loro aziende hanno già raggiunto un buon livello di digitalizzazione e integrazione e l’86% si aspetta di ottenere elevate riduzioni di costi e incrementi di fatturato. Il 55% degli intervistati ha dichiarato di aspettarsi un ritorno sugli investimenti di meno di due anni.
Gli incrementi di fatturato provengono in gran parte dall’offerta di profili digitali aggiuntivi oppure con la fornitura di analytics ai clienti. Con l’aumento di operatività 4.0 all’interno di un’azienda, essa si accorgerà però che i benefici andranno molto oltre il semplice vendere nuove tipologie di prodotti; ma vedrà che la propria azienda è più efficiente, perché essa fa parte di un unico ecosistema completamente interconnesso di fornitori, clienti, distributori, partner e dipendenti. Collegato poi ad altre reti similari nel mondo.
Ma cosa c’è di nuovo in questa rivoluzione? Cosa c’è di diverso rispetto ad essere un nuovo metodo di produrre? Vediamo quali sono gli elementi innovativi di “Industry 4.0”.
Fusione di reale con virtuale: “coscienza” dei macchinari. Sotto il paradigma Industry 4.0, la progettazione del prodotto ed il suo sviluppo possono aver luogo in laboratori simulati che utilizzano modelli digitali virtuali. I prodotti fisici acquisiscono forma tangibile solamente dopo che tutti i problemi di progettazione e ingegnerizzazione sono stati risolti. Ma non è tutto: le reti di macchinari produttivi diventano “coscienti” e sono in grado di rispondere rapidamente non solo a comandi umani o del software di produzione, ma anche alle loro stesse percezioni.
“Industry 4.0” porterà una maggior fidelizzazione dei dipendenti. Tra le riduzioni di costi c’è un elemento interessante emerso dall’ indagine di PWC: poiché la “produzione 4.0” pare renda il cliente più soddisfatto, anche gli stessi dipendenti del produttore ne risultano più appagati e soddisfatti e quindi incentivati a rimanere in azienda. E ciò abbassa i costi di training e supporto dovuti al turnover del personale.
Il problema di essere “first mover” e la sicurezza. Vi sono molte sfide associate ad “Industry 4.0”, tra cui il dover completamente aprire i propri dati verso l’esterno; e questo può rappresentare un problema per molti. Inoltre ci si deve aspettare di dover fare considerevoli investimenti con buon anticipo rispetto ai risultati attesi. Tenendo anche presente che molti aspetti degli stessi processi di questo paradigma non sono ancora ben conosciuti.

martedì 26 luglio 2016

I robot usati nelle aziende sono “Persone elettroniche” e ci rubano la pensione. di Achille De Tommaso – 25 luglio 2016

L'Unione Europea, a seguito di un rapporto presentato a fine maggio, potrebbe mettere allo studio una legge per tamponare l’incremento dell’uso di robot; intesa a compensare la perdita di posti di lavoro di esseri umani.  E, come risultato, a scoraggiare l’uso di robotica e intelligenza artificiale. Il rapporto dichiara  che  robotica e intelligenza artificiale possono danneggiare l’esistenza di una gran parte del lavoro ormai fatto da esseri umani, sollevando preoccupazioni per il futuro dell'occupazione e per la congruità dei sistemi di sicurezza sociale. La soluzione è dichiarare i robot “persone elettroniche”.

Il percorso legislativo è ancora all’inizio: un piccolo comitato del Parlamento Europeo ne sta discutendo da settimane; e il risultato di queste discussioni verrà poi presentato all’intero Parlamento. Questa discussione più ampia, in realtà, potrebbe durare un certo tempo; infatti, poiché i tentativi di legiferazione, in UE, sono innumerevoli, ad ognuno di essi i parlamentari sono soliti dedicare  pochi nanosecondi di attenzione. Ma tant’è: il disegno di legge, anticipato con un rapporto il 31 maggio, verrà presentato; e vale la pena analizzarlo; per capirne le logiche e le contro-logiche.
Anche perché quello che tale legge in fieri vorrebbe significare è che, chiunque abbia l'ardire di utilizzare robot nella sua fabbrica, al posto di esseri umani, deve anche essere disposto a pagare imposte previdenziali più alte. 
Il problema dei robot (se problema è) è che sono molto convenienti per il datore di lavoro. Innanzitutto i robot non vanno in pensione (e quindi, tra l’altro, non debbono risparmiare per pensioni integrative); non si ammalano come gli umani; e comunque la loro riparazione, se si guastano, la paga il proprietario, non lo Stato.  Non si sposano (almeno per ora), non fanno figli, non hanno una famiglia, non vanno a scuola, eccetera. Ecco perché sono attraenti per un datore di lavoro; soprattutto in un'epoca in cui l'automazione è sempre più economica mentre i lavoratori umani diventano sempre più costosi, indisciplinati e, quindi, socialmente ingombranti.
Ma è appurato che questo incremento di robotizzazione rappresenti una minaccia lampante per il quadro pensionistico generale.
Secondo il rapporto UE sui robot (*), la loro intelligenza crescente, la loro pervasività ed autonomia richiede un ripensamento di tutto, dalla tassazione alle responsabilità legali, e necessita pertanto di uno specifico progetto del Parlamento Europeo. Non siamo ancora alle “tre leggi della robotica” di Asimov, ma non ne siamo lontani; anzi: nel rapporto, queste tre leggi sono specificamente menzionate e considerate applicabili (sic !).
Soluzioni possibili?
Ovviamente se si desse uno stipendio ai robot, preferibilmente medio alto, il tutto verrebbe immediatamente risolto con una congrua tassazione standard alla fonte; ma questo toglierebbe la convenienza per il datore di lavoro. Anche se comunque si dovrebbe pensare che i robot possano essere meno assenteisti, meno pretenziosi (es. ticket-restaurant, auto aziendale) e non abbiano bisogno di sindacati.  
Ma nel rapporto viene presentata un’altra brillante soluzione:
Nel rapporto, infatti, viene suggerito che ai robot in Europa vengano dati diritti legali, e gli stessi  considerati "persone elettroniche".  Di conseguenza, i datori di lavoro sarebbero tenuti a pagare i contributi sociali, per conto dei propri lavoratori robot, proprio come fanno per i lavoratori umani.
Nasce però un ovvio problema: se i robot sono “persone” e vengono tassati alla fonte, i soldi relativi alla pensione non vengono dati al robot quando lo si demolisce; e quindi  i robot non otterrebbero le pensioni per cui hanno pagato.  E questo potrebbe far nascere un problema costituzionale se i robot venissero considerati, come appunto proposto, persone: “persone elettroniche”. Non solo; in realtà il problema reale è:”ma se questi soldi non vanno a pagare la pensione del robot, a chi vanno ?”. La risposta più logica, in Italia,  sarebbe : “all’INPS, che penserebbe a ridistribuirli”. Ma sono sicuro che questa ventilata soluzione solleverebbe una enorme levata di scudi nel nostro paese.
Il rapporto va anche oltre. Tenendo, infatti,  conto degli effetti che lo sviluppo e la diffusione della robotica e intelligenza artificiale potrebbe avere sull'occupazione e, di conseguenza, sulla congruità dei sistemi di sicurezza sociale degli Stati membri, esso raccomanda di tenere in considerazione l'eventuale necessità di introdurre obblighi di comunicazioni aziendali circa la quota del contributo della robotica ai risultati economici di una società; ciò allo scopo di evidenziare la giustezza della tassazione e dei contributi previdenziali pagati. E magari di limitare l’uso di robot.
In pratica, ciò che viene effettivamente detto è che le aziende che impiegano i robot dovrebbero essere tassate più di quelle che non li usano.
Ma è ovvio che questo è un nonsenso.
E’ un nonsenso perché l’Uomo usa le macchine perché le macchine rendono più efficiente il proprio lavoro. E storicamente l’Uomo ha sempre cercato di migliorare la propria efficienza lavorativa; usando cani pastore, cavalli, buoi per aratri, leve, carrucole, macchine, computer, robot, intelligenza artificiale. E’ giusto scoraggiare questa efficienza considerando che, nella realtà, più meccanizzazione adottiamo e più rendiamo sul lavoro ?
E poi come la mettiamo con gli altri continenti che non certificano i robot come “persona elettronica”? Se un robot europeo emigra negli USA (per esempio) per cercare lavoro; il suo datore di lavoro americano dovrà pagare maggiori contributi? Probabilmente no; e questo fatto potrebbe far emigrare una grande quantità di robot europei in altri continenti, perché il loro lavoro, lì, costerebbe di meno. Avremo quindi una fuga di “cervelli elettronici” dall’Europa. Viene però anche detto nel rapporto che altri continenti hanno allo studio il fenomeno robot. E ciò potrebbe portare a trattati di libera circolazione del lavoro robotico.
Sorge l’ovvio dubbio che una migliore efficienza, in Europa, si possa raggiungere rapidamente non togliendo i robot; ma togliendo alcuni umani. Ad esempio alcuni rappresentanti del Parlamento Europeo.

(*) Chi è interessato a leggere il documento UE lo trova a questo link:
Articolo pubblicato originalmente su “Agenda Digitale”

giovedì 14 luglio 2016

Ma quali competenze digitali, se l'Italia ha smesso di investire in cultura

In Europa nel campo digitale siamo arretrati in tutto. Anche nella cultura digitale. Il Bel Paese ha il numero di immatricolazioni universitarie più basse; le relative tasse sono le terze più care d'Europa e gli abbandoni sono tanti.


di Achille De Tommaso - 14 luglio 2016 - AGGIORNAMENTO 13 GIUGNO 2019

Secondo i parametri DESI (Digital Economy and Society Index) della UE, siamo arretrati in quasi tutto ciò che riguarda il digitale. Ma quello che sicuramente ci dovrebbe preoccupare di più, è renderci conto che, rispetto agli altri paesi europei, siamo arretrati nella cultura digitale; nei cosiddetti skill. E, come vedremo, la causa di ciò, probabilmente, è che, dolorosamente, siamo arretrati nella cultura; in generale. Quella cultura di cui siamo stati la culla.
Innanzitutto i grafici DESI illustrano il fatto che, nel capitale umano digitale,  siamo non solo arretrati rispetto alla media europea, ma anche rispetto a quei paesi europei che si stanno sviluppando.
E, quel che è peggio, di anno in anno stiamo arretrando nelle posizioni di confronto con altri paesi UE.  Nel 2015 eravamo quintultimi, nel 2016 siamo quartultimi. Fra pochi anni potremo vincere il “cucchiaio di legno” di buoni ultimi. Infatti, anche se è vero che alcuni progetti sono finalmente in corso per dotare gli italiani di banda larga e ultralarga, e di cultura digitale, non possiamo illuderci che gli altri paesi stiano fermi. 
Le cause? Innanzitutto la bassa spesa per l’educazione, in generale.  Secondo Eurostat, l’Italia è il fanalino di coda in Europa per percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura (1,1% a fronte del 2,2% dell’Ue a 27) e, come se non bastasse, al penultimo posto, seguita solo dalla Grecia, per percentuale di spesa in istruzione (l’8,5% a fronte del 10,9% dell’Ue a 27). Analizzando la percentuale rispetto al Pil, l’Istat poi sottolinea che la spesa per l’ istruzione è diminuita, passando dal 4,4% del 2014 al 4,2% nel 2015 mentre quella per la cultura si è quasi dimezzata passando dallo 0,8% allo 0,5%.  
Parliamo in particolare delle nostre università; perché per molti anni abbiamo pensato di avere delle università eccellenti. E invece no, secondo “Times Higher Education” la migliore università italiana (la Normale Superiore di Pisa) è al 112mo posto a livello mondiale, mentre i nostri “fiori all’occhiello” come il Poli di Milano e la Sapienza di Roma sono tra il 200mo e il 250mo posto.
l’Italia, poi, sforna meno laureati di tutte le nazioni europee:  Eurostat sottolinea che nel nostro Paese si laureavano e si laureano ancora pochi studenti. A fronte di una media europea del 36,8% la quota di popolazione tra i 30 e i 34 anni in possesso di un diploma di alta formazione arriva appena al 22,4 per cento. Una performance che ci vale l'ultima piazza nell'Ue a 28. Molto alta, poi, la percentuale di abbandoni. Dai dati disponibili nel rapporto OECD Education at a Glance  in Italia soltanto il 32,8% degli studenti porta a termine un corso di laurea a fronte di una media OECD pari al 38%.
Si potrebbe dire che le nostre università, però, hanno tasse universitarie basse? No; secondo “Eurydice”, in Europa, le tasse universitarie più alte si pagano nel Regno Unito; dopodiché, le tasse italiane e quelle spagnole si contendono il secondo posto: tutte le altre nazioni europee godono di tasse universitarie più basse.
Allo stesso tempo, le università italiane attirano pochi studenti stranieri. Nel 2013 (ultimi dati OECD), meno di 16.000 studenti stranieri degli altri Paesi dell’OCSE risultava iscritto nelle istituzioni italiane dell’istruzione terziaria (il gruppo più rilevante di essi proviene dalla Grecia) rispetto a circa 46.000 studenti in Francia e 68.000 in Germania.
Francesco Avvisati, senior analyst presso l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico dice: «Da noi mancano i quadri intermedi, quei periti di cui le aziende tanto avrebbero bisogno, mentre in Francia ad esempio gli Istituti universitari di tecnologia sfornano informatici in due anni. Disattenti agli esiti lavorativi, i nostri atenei si rivelano carenti anche sul fronte delle competenze di base:  la priorità del sistema resta quella di formare belle menti, ricercatori, dirigenti, ingegneri. Non c’è l’idea di concentrare gli sforzi per elevare le competenze medie dei ragazzi usciti dalle superiori».
Diversi indicatori suggeriscono pertanto che una delle principali cause di questo decadimento sia collegata alla bassa qualità dell’insegnamento. Secondo OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development - una organizzazione con 34 paesi membri),  spesso, in Italia,  i titoli di studio non coincidono con l’acquisizione di competenze solide; sollevando interrogativi circa la qualità dell’apprendimento nelle istituzioni dell’istruzione terziaria. L’Italia, ad esempio, con la Spagna e l’Irlanda, ha registrato uno dei punteggi più bassi in termini di lettura e comprensione (literacy) dei 25-34enni, titolari di un diploma universitario (istruzione terziaria), che hanno partecipato allo studio dell’OCSE sulle competenze degli adulti. Molti laureati hanno difficoltà nell’integrare, interpretare o sintetizzare le informazioni contenute in testi complessi o lunghi, nonché nel valutare la fondatezza di affermazioni o argomentazioni a partire da indizi sottili.
E’ tutto? Forse no.
Forse no, perché alcuni, in realtà, si chiedono dove sia finita la “Cultura” italiana. Non solo quella digitale; ma la Cultura vera e propria. L’antropologo Tullio Altan, ad esempio, è un convinto sostenitore del fatto che le tare della società italiana abbiano la loro spiegazione nel perdurare di una mentalità che ha origini lontane, di secoli; e pertanto chiarisce il rapporto che passa tra mentalità e altri aspetti della vita collettiva e denuncia lo scarso impegno degli studiosi italiani nell’esaminare questi problemi. E il declino pare cominciare nel ‘700. In altre parole, dopo essersi lungamente imposta come un modello di civiltà, nel ’700 l’Italia cominciò ad importare idee: il rapporto con le altre aree europee si era completamente rovesciato.
Originalmente pubblicato su “Agenda Digitale” il 13 Luglio 2016


aggiornamento 13 giugno 2019

UE, indice di digitalizzazione DESI 2019, l’Italia resta indietro

13 GIUGNO 2019
Forniti anche dati sul divario di genere digitale. I paesi che hanno fissato obiettivi ambiziosi in linea con la strategia per il mercato unico digitale dell’UE e li hanno sostenuti con investimenti adeguati hanno conseguito risultati in un periodo di tempo relativamente breve. È il caso, ad esempio, della Spagna relativamente alla diffusione della banda larga ultraveloce, di Cipro per la connettività a banda larga, dell’Irlanda per la digitalizzazione delle imprese e della Lettonia e della Lituania per quanto riguarda i servizi pubblici digitali. L’Italia resta fra gli ultimi Paesi (24esima su 28) rispetto ai 5 parametri registrati dall’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (Digital Economy and Society Index – DESI), ossia connettività capitale umano, uso dei sevizi internet, integrazione delle tecnologia digitali nelle imprese, sevizi pubblici digitali. E’ quanto risulta dal Rapporto DESI 2019, appena rilasciato dalla Commissione. L’indice monitora le prestazioni digitali globali dell’Europa e misura i progressi compiuti dai paesi dell’UE in termini di competitività digitale. Sono stati anche rilasciati i dati relativi all’approfondimento sul divario di genere digitale (WIS), seconda edizione.

lunedì 2 maggio 2016

La débacle delle nostre telecomunicazioni - di Achille De Tommaso 24-5-2016

Calo dei prezzi incontrollato, miopi regole UE e vincoli normativi danneggiano, forse irreparabilmente, il comparto.

In Italia, secondo varie fonti, (vedi grafico) negli ultimi 5 anni, il comparto delle telecomunicazioni ha perso più di un quarto del suo valore, in Spagna più o meno lo stesso. La Francia ha perso il 17%, la Germania e UK l’8,5%.
Mentre gli USA hanno guadagnato il 16% !


Infatti negli USA i  ricavi della telefonia fissa calano, ma l’incremento della telefonia mobile e dei “devices” compensa più che bene questo calo. Perché accade questo ? A causa del calo dei prezzi e della diversa concentrazione di operatori nei due continenti.

Il calo incontrollato dei prezzi
Per quanto riguarda i prezzi: se analizziamo innanzitutto l’ARPU (Average Revenue Per User), ossia quanto ricava in media un operatore da un cliente. Negli USA esso è rimasto costante, negli ultimi cinque anni,  a circa 50 dollari. Si è verificato infatti che, mentre la telefonia fissa declinava del 16%, quella mobile incrementava del 26%; compensando la perdita sul fisso e aumentando, quindi, nel totale i ricavi. In Europa, invece, i prezzi , a causa della forte competizione, con l’incremento delle offerte “aggressive” e  sotto la pressione delle Autorità di Regolamentazione, sono stati in continua diminuzione.
L’esempio dell’Italia è significativo e ci tocca da vicino: mentre  la telefonia fissa declinava sia in traffico che in fatturato, i prezzi della telefonia mobile, (fonte ISTAT e ASSTEL)  in quattro anni, sono scesi di quasi il 50%.

La differenza di concentrazioni
Analizziamo ora il secondo problema; la differenza delle concentrazioni di operatori  in Europa e negli USA:
Negli USA, una volta allentate le maglie regolamentari (1996 – Telecommunications Act) l’epopea delle telecomunicazioni americane è stata riscritta a suon di fusioni e acquisizioni. William Kennard, attuale ambasciatore americano a Bruxelles, (ex leader della FCC) afferma :”Abbiamo lasciato il mercato agire ed è stata la migliore decisione che il governo potesse prendere”. E i numeri gli danno ragione.
Diciassette anni dopo, il 90% dei consumatori americani può scegliere tra almeno 6 operatori che offrono servizi su scala locale e quattro operatori (Verizon, ATT, T-Mobile, Sprint) che offrono servizi su scala internazionale e intercontinentale (fonte CorCom).
Questo contro i circa 150 operatori europei che agiscono soprattutto a livello nazionale (ad esempio non esiste una rete mobile europea).  Quello europeo, infatti, è un mercato caratterizzato da alcuni operatori dominanti all’interno dei confini nazionali, cui si aggiungono decine di piccoli operatori, anche loro solo nazionali. Mercato quindi frammentato in più mercati nazionali oligopolistici che  competono  tra loro, con enormi vincoli tecnici, finanziari e normativi. E con pochi operatori europei.
La Ue afferma che vorrebbe un mercato unico delle telecomunicazioni, dove i singoli mercati nazionali competano tra loro; ma predica bene e razzola male. Perché, oltre a unificare mercati e regolamenti (che comunque non sta facendo – v. ad es. la gestione degli spettri di frequenze); ostacola e rallenta in tutti i modi la fusione tra operatori europei, che favorirebbe la competizione non solo in Europa, ma soprattutto nei confronti degli USA. Dove, tra l’altro, zitti zitti, gli OTT stanno creando operatori di telecomunicazioni globali: Facebook con Whatsapp, Google con GMAIL, Apple con Facetime e iMessages e Microsoft con SKYPE. 
Risultato: anche in questo caso (come in quello dei parametri economici generali); le strette regole europee uccidono l’economia; uccidendo lentamente anche il comparto delle telecomunicazioni e danneggiando l’ICT irreparabilmente. I grandi operatori del settore, infatti, accusano la normativa comunitaria in materia di concorrenza di ostacolare la competitività delle loro aziende. Per questo motivo chiedono a gran voce regole meno stringenti che permettano un maggior consolidamento all’interno dei confini nazionali e magari anche internazionali.
I regolatori europei, tuttavia, ritengono che questa non sia la strada giusta da perseguire per la creazione di un mercato comune del settore. Regole meno stringenti, infatti, a loro parere, penalizzerebbero i consumatori in termini di maggiori prezzi e minore qualità del servizio offerto. Dimenticando questi regolatori che la liberalizzazione è stata concepita per far sviluppare il settore; non solo fornendo giusti prezzi ai clienti; ma anche giusti guadagni ai fornitori. E dimenticando anche che la qualità ha un costo. Il buon regolatore sviluppa il mercato, non lo uccide.
La sostenibilità nel tempo  delle attività di questi operatori, infatti, non può continuare ad essere ottenuta con licenziamenti, ma è legata alla capacità di conseguire guadagni di efficienza, riducendo i costi di produzione. Nonostante il taglio dei costi, però, solo due o tre operatori  europei hanno una solidità tale da generare ricavi e profitti significativi; gli altri languono: il desiderio di perseguire fusioni e acquisizioni, di conseguenza, è semplicemente una naturale evoluzione del mercato. Ostacolata; addirittura osteggiata, dai soloni della UE.

Da ultimo: gli investimenti
Il lato tragico della débacle europea è che alla riduzione di prezzi dei servizi è corrisposto un utilizzo delle reti sempre più esteso. Il che significa una maggior necessità di investimenti. Nonostante il trend molto negativo di ricavi e margini, gli investimenti degli operatori  registrano un incremento del 7% nel 2014.   L’incremento degli investimenti degli operatori è ancora più rilevante, in Italia, se letto nello scenario macroeconomico complessivo, in cui si evince che gli investimenti complessivi delle imprese calano di oltre il 3% nel 2014. Nel complesso (fonte La Stampa/Economia) gli operatori italiani contribuiscono al totale degli investimenti nazionali col 16% dei loro ricavi . Il valore più alto in Europa.
E non si può affermare che gli investimenti siano inferiori alla domanda; anzi, è esattamente l’opposto. Se prendiamo l’esempio degli investimenti in banda ultralarga (grafico che segue), ci accorgiamo che, contro una copertura del 44% delle famiglie, solamente il 4% ne ha sottoscritto servizi. Si potrebbe dire che siamo ancora nella fase di decollo di questi servizi; ma non è così; se guardiamo infatti le altre nazioni più avanzate in copertura, ci accorgiamo che il divario copertura/domanda rimane sensibile anche in questi paesi; e questo fatto dovrebbe farci riflettere parecchio sui ritorni di questi investimenti.

Eppure gli investimenti europei sono di gran lunga inferiori a quelli USA. Fino a un decennio fa (secondo “Strand Consult”) la Ue rappresentava un terzo degli investimenti nelle comunicazioni mentre oggi siamo a meno di un quinto. Nel frattempo gli Usa hanno invece mantenuto la leadership negli investimenti in infrastrutture, attestandosi a circa un terzo del totale globale.

Conclusioni:
Abbiamo visto che la débacle, per altro non solo nei confronti degli USA, è causata dal calo “incontrollato” dei prezzi e dalla distribuzione di operatori nei diversi continenti, che, in Europa, dà luogo a vincoli normativi e non permette economie di scala.
Per quanto riguarda i prezzi non posso che commentare che, a mio parere, l’ “Authority” dovrebbe considerare il tema con grande attenzione. Infatti, anche se è ovvio che una buona colpa della scalata al ribasso dei prezzi stia nel marketing aggressivo degli operatori, è anche ovvio che tale comportamento sia stato una reazione a catena causata dalle spinte regolatorie. E l’Authority dovrebbe avere  ben chiaro il fatto che una buona regolamentazione debba non solo far nascere la concorrenza, ma anche farla sopravvivere. Se l’EBTDA degli operatori continua a calare, la sopravvivenza è a rischio.
E non sono solo i prezzi il problema; ma soprattutto le regole.
Per l’Italia c’è da citare Cesare Avenia, presidente ASSTEL, che a fine 2015 asseriva :  “…non è accettabile continuare ad avere risposte istituzionali tardive, insufficienti, intrappolate da procedure lunghe e farraginose che di fatto creano ostacoli allo sviluppo degli investimenti”.
I regolatori e antitrust europei, poi, continuano a mantenere una posizione miope;  dura e negativa contro il consolidamento del mercato delle telecomunicazioni, che, negli USA ha portato, invece a concentrazioni e forti economie di scala.  E secondo Strand Consult "Questo problema nasce da un conflitto di competenze e strategie tra organi della stessa Commissione, tanto da far dubitare che i funzionari di queste istituzioni siano competenti".

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