L’epoca in cui
viviamo, di gratificazione istantanea e fascino per la tecnologia
all'avanguardia ha portato molti artisti, psicologi, educatori, pensatori (ma
anche tecnologi) a chiedersi se non staremmo meglio con un pochino meno di
tecnologia.
Pensiamo veramente di
essere intellettualmente più ricchi quando mediamo la nostra comprensione del
mondo attraverso i motori di ricerca e il web? Cosa succede all'arte, alla
cultura, e all'identità, quando la tecnologia si diffonde?
E dove andremo dopo?
La verità è che lo
stato attuale della tecnologia è sia insoddisfacente che soddisfacente. In
molti modi ci deruba della nostra umanità, e in molti altri la valorizza.
IL DIGITALE
APPIATTISCE E NON DIVERSIFICA?
Il sentimento generale
verso il web e la pletora di dispositivi che ci circondano è di credere che essi
abbiano consentito e democratizzato l'espressione umana e l'accesso alle
informazioni.
Però, se un governo facesse oggi quello che fanno, ad esempio, Google e
Facebook, apparirebbe autoritario: ma quando ad essere colpevoli sono i
tecnologi, tutto si sfuma. E (esempio significativo) le culture difficili da
digitalizzare sono ridotte alla loro somiglianza digitale più vicina. Gli
utenti della tecnologia, soprattutto occidentali, non si accorgono quasi del
monolito che ha mascherato la natura di alcune delle culture umane più elaborate. Siamo
troppo distratti dai piaceri del mondo digitale per renderci conto di ciò che
ci manca. Noi occidentali, ad esempio, non sappiamo, o non ricordiamo, quanti
meravigliosi script tradizionali – come il nastaliq (1) e la miriade di stili
calligrafici orientali – si son dovuti arrendere alla grossolanità e alla
monotonia della rigida scrittura digitale, solo perché erano difficili da
codificare.
E questo è solo uno
dei molti esempi che mostrano come, se guardato da una prospettiva
culturalmente informata, l'attuale mondo digitale standardizzi la voce umana
molto più di quanto la diversifichi.
ESPRESSIONE ARTISTICA
Certa arte si è
evoluta in modo strano.
Alcuni
anni fa Ian Brown (un…interessante giornalista (4) ) pubblicò un pezzo (2) stimolante in The Globe and Mail,
sostenendo che l'accesso democratico alla fotografia ha anche generato
"un'incredibile ondata di mediocrità". Proporzionale all'aumento
della capacità di memorizzazione e con una diminuzione di sostanza e qualità.
Da un punto di vista
tradizionale, lo scopo dell'arte è anche quello di capire l'artista. Le opere
d'arte servono infatti anche a far comprendere ai suoi spettatori l'anima e la
personalità dell'artista, il suo io più intimo. Ciò richiede sincerità,
presenza, meticolosità e pratica paziente.
Ma con la rivoluzione
di massa dell’inquadra e scatta", hobbisti e selfie-isti permanenti hanno
abbandonato le filosofie riflessive della fotografia per un consumismo
nevrotico. E’ vero che sono emerse nuove forme di comunicazione visiva; ma
forse abbiamo perso l’arte.
Io posseggo varie
reflex, molte a pellicola, ed alcune digitali. E anche vari obbiettivi. Ma
quando oggi vado in giro, scatto le foto con lo smartphone. Quando andavo in
giro con la reflex cercavo l’inquadratura e la giusta esposizione; e su un
rullino da 36 ero felice se ottenevo UNA foto di qualità artistica. Con una
buona definizione.
Oggi con lo smartphone
mi preoccupo che le persone sorridano; che il soggetto sia bene a fuoco e
nitido non è importante; perché importante è il momento e il “guardate dove
sono”: non è importante la foto in se stessa. E, dopo la “condivisione” la foto
scompare nel mare dei Gbytes. La rivedremo mai? Forse solo per far vedere agli
amici che faccia hanno i nostri nipotini.
Il risultato è che
QUESTA fotografia è più simile a un miasma digitale, che all’arte.
INTELLIGENZA
ESISTENZIALE
Secondo
me un must da leggere quando si parla della filosofia e della tecnologia è
" The Power of Patience "(3), scritto dalla professoressa di studi umanistici all'Università di
Harvard Jennifer L. Roberts.
La Roberts scrive
dell'imperativo umano di insegnare agli studenti il valore della “decelerazione e dell'attenzione immersiva”. Uno
dei compiti che assegna ai suoi studenti è di fissare un'opera d'arte per tre
ore intere, in un museo, lontano dai posti che sono soliti frequentare e dalle
distrazioni quotidiane.
Ella scrive: ”Si
presume comunemente che la visione, il “vedere”, dia una sensazione
immediata. Pensiamo che il “vedere” sia diretto, semplice e istantaneo; motivo
per cui è diventato il senso principale per la fornitura di informazioni nel
mondo tecnologico contemporaneo. Ma ciò che gli studenti imparano in modo
viscerale con questa tecnica è che in ogni opera d'arte ci sono dettagli,
ordini e relazioni che richiedono tempo per essere percepiti: Ciò che questo
esercizio mostra agli studenti è che solo perché hai guardato qualcosa
non significa che l'hai visto. Solo perché qualcosa è
immediatamente disponibile alla visione non significa che sia immediatamente
disponibile alla coscienza. Oppure, in termini leggermente più generali:
l'accesso non è sinonimo di apprendimento. Ciò che trasforma l'accesso in
apprendimento, è il tempo e la pazienza”.
La nostra idea comune
di un pezzo di tecnologia che sia migliore di quella precedente è che sia più
veloce. Invece, la decelerazione è essenziale per l'apprendimento e, nelle
parole della Roberts, “i ritardi non sono ostacoli inerti che impediscono la
produttività. I ritardi possono essere essi stessi produttivi".
Riflettiamo: la conversazione faccia a faccia si svolge
lentamente. Insegna la pazienza. Quando comunichiamo coi nostri
dispositivi digitali, invece, mentre aumentiamo il volume e la velocità delle
connessioni online, iniziamo ad aspettarci risposte sempre più veloci. Per
ottenere queste, ci facciamo l'un l'altro domande più semplici, che possano essere
capite velocemente; dequalifichiamo le nostre comunicazioni anche sulle
questioni più importanti.
Il nostro furioso
attaccamento alla velocità ha notevolmente ridotto la nostra capacità di
attenzione e la nostra tolleranza per le situazioni a bassa stimolazione. Non
tolleriamo più ritardi silenziosi e, allo stesso modo, abbiamo perso l'arte di impegnarci
in attività silenziose e prolungate che non comportino iperstimolazione. Distrazione,
velocità e impulsività sembrano definire l'ultima versione di Umani 2.0.
IL PROGRESSO TECNICO E’
PROGRESSO UMANO?
Il paradigma
prevalente sembra riguardare il progresso tecnico, non il progresso umano; e i
due non sono necessariamente sinonimi.
Tutti i tipi di gadget
interessanti vengono inventati e smanettati per soddisfare esigenze individuali. Ma
l'assunto di base è errato: ci avviciniamo a presumere, erroneamente, che una
visione del mondo tecnologicamente fluente possa spiegare tutte le distinte
sfumature culturali e individuali e rappresentarle in modo accurato e
significativo; forse persino sostituirle.
Affinché la tecnologia
funga da utile supporto alle interazioni umane, all'espressione artistica e
all'arricchimento culturale, dobbiamo forse tornare al tavolo da disegno:
ripensare e progettare strumenti innovativi; ma secondo principi umanistici. Infatti,
la mia impressione è che, invece di esigere che le nostre menti creative
producano tecnologia incentrata sull'uomo, abbiamo accettato di diventare umani
incentrati sulla tecnologia.
È giunto forse il
momento per menti coraggiose e liberi pensatori di studiare, interrogare, sfidare
e ridefinire rigorosamente i progressi in termini più umanistici e culturali. Il
futuro della civiltà dipende da anche questo.