venerdì 24 luglio 2020

RIPENSARE IL RAPPORTO TRA CULTURA E TECNOLOGIA


L’epoca in cui viviamo, di gratificazione istantanea e fascino per la tecnologia all'avanguardia ha portato molti artisti, psicologi, educatori, pensatori (ma anche tecnologi) a chiedersi se non staremmo meglio con un pochino meno di tecnologia.
Pensiamo veramente di essere intellettualmente più ricchi quando mediamo la nostra comprensione del mondo attraverso i motori di ricerca e il web? Cosa succede all'arte, alla cultura, e all'identità, quando la tecnologia si diffonde? 
E dove andremo dopo?
La verità è che lo stato attuale della tecnologia è sia insoddisfacente che soddisfacente. In molti modi ci deruba della nostra umanità, e in molti altri la valorizza. 
IL DIGITALE APPIATTISCE E NON DIVERSIFICA?
Il sentimento generale verso il web e la pletora di dispositivi che ci circondano è di credere che essi abbiano consentito e democratizzato l'espressione umana e l'accesso alle informazioni. 
Però, se un governo facesse oggi quello che fanno, ad esempio, Google e Facebook, apparirebbe autoritario: ma quando ad essere colpevoli sono i tecnologi, tutto si sfuma. E (esempio significativo) le culture difficili da digitalizzare sono ridotte alla loro somiglianza digitale più vicina. Gli utenti della tecnologia, soprattutto occidentali, non si accorgono quasi del monolito che ha mascherato la natura di alcune delle culture umane più elaborate. Siamo troppo distratti dai piaceri del mondo digitale per renderci conto di ciò che ci manca. Noi occidentali, ad esempio, non sappiamo, o non ricordiamo, quanti meravigliosi script tradizionali – come il nastaliq (1) e la miriade di stili calligrafici orientali – si son dovuti arrendere alla grossolanità e alla monotonia della rigida scrittura digitale, solo perché erano difficili da codificare. 
E questo è solo uno dei molti esempi che mostrano come, se guardato da una prospettiva culturalmente informata, l'attuale mondo digitale standardizzi la voce umana molto più di quanto la diversifichi.
ESPRESSIONE ARTISTICA
Certa arte si è evoluta in modo strano.
Alcuni anni fa Ian Brown (un…interessante giornalista (4)  ) pubblicò un pezzo (2) stimolante in The Globe and Mail, sostenendo che l'accesso democratico alla fotografia ha anche generato "un'incredibile ondata di mediocrità". Proporzionale all'aumento della capacità di memorizzazione e con una diminuzione di sostanza e qualità.
Da un punto di vista tradizionale, lo scopo dell'arte è anche quello di capire l'artista. Le opere d'arte servono infatti anche a far comprendere ai suoi spettatori l'anima e la personalità dell'artista, il suo io più intimo. Ciò richiede sincerità, presenza, meticolosità e pratica paziente.
Ma con la rivoluzione di massa dell’inquadra e scatta", hobbisti e selfie-isti permanenti hanno abbandonato le filosofie riflessive della fotografia per un consumismo nevrotico. E’ vero che sono emerse nuove forme di comunicazione visiva; ma forse abbiamo perso l’arte.
Io posseggo varie reflex, molte a pellicola, ed alcune digitali. E anche vari obbiettivi. Ma quando oggi vado in giro, scatto le foto con lo smartphone. Quando andavo in giro con la reflex cercavo l’inquadratura e la giusta esposizione; e su un rullino da 36 ero felice se ottenevo UNA foto di qualità artistica. Con una buona definizione.
Oggi con lo smartphone mi preoccupo che le persone sorridano; che il soggetto sia bene a fuoco e nitido non è importante; perché importante è il momento e il “guardate dove sono”: non è importante la foto in se stessa. E, dopo la “condivisione” la foto scompare nel mare dei Gbytes. La rivedremo mai? Forse solo per far vedere agli amici che faccia hanno i nostri nipotini.
Il risultato è che QUESTA fotografia è più simile a un miasma digitale, che all’arte.
INTELLIGENZA ESISTENZIALE
Secondo me un must da leggere quando si parla della filosofia e della tecnologia è " The Power of Patience "(3), scritto dalla professoressa di studi umanistici all'Università di Harvard Jennifer L. Roberts.
La Roberts scrive dell'imperativo umano di insegnare agli studenti il ​​valore della “decelerazione e dell'attenzione immersiva”. Uno dei compiti che assegna ai suoi studenti è di fissare un'opera d'arte per tre ore intere, in un museo, lontano dai posti che sono soliti frequentare e dalle distrazioni quotidiane.
Ella scrive: ”Si presume comunemente che la visione, il “vedere”, dia una sensazione immediata. Pensiamo che il “vedere” sia diretto, semplice e istantaneo; motivo per cui è diventato il senso principale per la fornitura di informazioni nel mondo tecnologico contemporaneo. Ma ciò che gli studenti imparano in modo viscerale con questa tecnica è che in ogni opera d'arte ci sono dettagli, ordini e relazioni che richiedono tempo per essere percepiti: Ciò che questo esercizio mostra agli studenti è che solo perché hai  guardato qualcosa non significa che l'hai  visto. Solo perché qualcosa è immediatamente disponibile alla visione non significa che sia immediatamente disponibile alla coscienza. Oppure, in termini leggermente più generali: l'accesso non è sinonimo di apprendimento. Ciò che trasforma l'accesso in apprendimento, è il tempo e la pazienza”.
La nostra idea comune di un pezzo di tecnologia che sia migliore di quella precedente è che sia più veloce. Invece, la decelerazione è essenziale per l'apprendimento e, nelle parole della Roberts, “i ritardi non sono ostacoli inerti che impediscono la produttività. I ritardi possono essere essi stessi produttivi".
Riflettiamo: la conversazione faccia a faccia si svolge lentamente. Insegna la pazienza. Quando comunichiamo coi nostri dispositivi digitali, invece, mentre aumentiamo il volume e la velocità delle connessioni online, iniziamo ad aspettarci risposte sempre più veloci. Per ottenere queste, ci facciamo l'un l'altro domande più semplici, che possano essere capite velocemente; dequalifichiamo le nostre comunicazioni anche sulle questioni più importanti.
Il nostro furioso attaccamento alla velocità ha notevolmente ridotto la nostra capacità di attenzione e la nostra tolleranza per le situazioni a bassa stimolazione. Non tolleriamo più ritardi silenziosi e, allo stesso modo, abbiamo perso l'arte di impegnarci in attività silenziose e prolungate che non comportino iperstimolazione. Distrazione, velocità e impulsività sembrano definire l'ultima versione di Umani 2.0.
IL PROGRESSO TECNICO E’ PROGRESSO UMANO?
Il paradigma prevalente sembra riguardare il progresso tecnico, non il progresso umano; e i due non sono necessariamente sinonimi.
Tutti i tipi di gadget interessanti vengono inventati e smanettati per soddisfare esigenze individuali. Ma l'assunto di base è errato: ci avviciniamo a presumere, erroneamente, che una visione del mondo tecnologicamente fluente possa spiegare tutte le distinte sfumature culturali e individuali e rappresentarle in modo accurato e significativo; forse persino sostituirle.
Affinché la tecnologia funga da utile supporto alle interazioni umane, all'espressione artistica e all'arricchimento culturale, dobbiamo forse tornare al tavolo da disegno: ripensare e progettare strumenti innovativi; ma secondo principi umanistici. Infatti, la mia impressione è che, invece di esigere che le nostre menti creative producano tecnologia incentrata sull'uomo, abbiamo accettato di diventare umani incentrati sulla tecnologia.
È giunto forse il momento per menti coraggiose e liberi pensatori di studiare, interrogare, sfidare e ridefinire rigorosamente i progressi in termini più umanistici e culturali. Il futuro della civiltà dipende da anche questo.



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