sabato 30 maggio 2020

Il significato Neuro-Bio-Psicologico del successo dei “Social Media” di Achille De Tommaso 15/02/2017 10:50:45


“Una persona non è semplicemente una persona. In ognuno di noi c’è un mondo, che si collega all’esterno cercando di raggiungere altre persone. Creando emozioni e reazioni, talvolta uguali, talvolta contrapposte…”
(dall’omelia del funerale officiato da Padre Lantom; della serie televisiva “Daredevil”).

Innanzitutto una informazione di principio per i pazienti lettori di questo articolo: nel prosieguo parlerò brevemente di “social networks” e mi addentrerò poi meglio a cercare di spiegare gli aspetti neuro-psicologici dei “social media”.
“Social networks” e “social media”, infatti, sono due cose diverse. Userò, quindi, per entrambe la terminologia inglese, che è meno ambigua. E spiegherò dapprima proprio questa ambiguità, perché entrambe le realtà sono strettamente correlate; ma non uguali.
Nella terminologia comune italiana, infatti, un “social network” è una “rete sociale”, come Facebook, Twitter, Linkedin, ecc. Usiamo, per altro di rado il termine “social media”. Mentre le due cose sono diverse. Vediamo le definizioni corrette (almeno secondo gli studiosi):
Una rete sociale (in lingua inglese social network) consiste in (Wikipedia) un qualsiasi gruppo di individui connessi tra loro da diversi legami sociali. Per gli esseri umani i legami vanno dalla conoscenza casuale, ai rapporti di lavoro, ai vincoli familiari. Le reti sociali sono spesso usate come base di studi interculturali in sociologia, in antropologia, in etologia.
L'analisi delle reti sociali, ovvero la mappatura e la misurazione delle reti sociali, può essere condotta con un formalismo matematico. In generale, il corpus teorico ed i modelli usati per lo studio delle reti sociali sono compresi nella cosiddetta social network analysis. Che è nata molto prima dell’avvento dei social media: a fine 1800 con i sociologi Emile Durkheim e Ferdinand Tonnies; e con i contributi, negli anni ’80, dello psichiatra austriaco Jacob Levi Moreno. Oggi varie università, soprattutto negli USA, studiano la “social network analysis”; anche per studiare i “social media”. La ricerca è condotta nell'ambito di diversi approcci disciplinari, e ha evidenziato come i social netwoks operino a più livelli (dalle famiglie alle comunità nazionali) e svolgano un ruolo cruciale nel determinare le modalità di risoluzione di problemi e i sistemi di gestione delle organizzazioni, nonché le possibilità dei singoli individui di raggiungere i propri obiettivi. Vediamo nella figura sottostante uno schema di “social network”
Interessante, nella social network analysis, il numero di Dunbar, conosciuto anche come la regola dei 150. Esso afferma che le dimensioni di una rete sociale in grado di sostenere relazioni stabili sono limitate a circa 150 membri. Questo numero è stato calcolato attraverso studi di sociologia e soprattutto di antropologia; nella psicologia evoluzionista viene teorizzato che il numero potrebbe costituire una sorta di limite per l'abilità media degli esseri umani di riconoscere dei membri e tenere traccia degli avvenimenti emotivi di tutte le persone di un gruppo. 
Social media, è un termine generico che indica tecnologie e pratiche online che le persone adottano per condividere contenuti testuali, immagini, video e audio (come, appunto, Facebook, Twitter, Linkedin, ecc.).
I social media rappresentano fondamentalmente un cambiamento nel modo in cui la gente apprende, legge e condivide informazioni e contenuti. In essi si verifica una fusione tra sociologia e tecnologia che trasforma il monologo (da uno a molti) in dialogo (da molti a molti) e ha luogo una democratizzazione dell'informazione che trasforma le persone da fruitori di contenuti ad editori. Dico subito che l’avvento dei “social media” ha distrutto una buona parte della teoria del numero 150 di Dunbar (quanti, infatti, hanno su Facebook o Twitter più di 150 contatti ?)
La teoria delle “reti”
L’uso dei social media ha visto una crescita esponenziale negli ultimi anni e coinvolge un numero sempre maggiore di popolazione. Molte persone, di tutte le età, sono attratte dall’uso dei “social” e li consultano giornalmente. Ma a cosa è dovuta questa attrazione? Ci sono delle motivazioni fisiche o psicologiche, a tutto ciò? La risposta è SI in generale; e le ragioni sono parecchie. Uno dei concetti da cui partire, per comprendere questo fenomeno, è che una persona è un mondo, e non semplicemente UNA persona.
Ed è sicuramente vero come, spesso, nel vivere reale, la nostra civiltà non tenga presente questa realtà. Ad esempio, in medicina, la relazione paziente-medico è altamente unitaria e spesso così deve essere per le modalità terapeutiche insegnate ai medici e a cui siamo abituati. Ma cosa accade se questa salute del paziente, che il medico tenta disperatamente di migliorare, dipende in realtà da altre persone ? Da figli, moglie, parenti, colleghi, insegnanti, amici, ecc…? Sicuramente è necessaria una lente molto più ampia per comprendere stati d’animo che possono portare a sofferenze fisiche; anche non percepite.
E’ ovvio, quindi, come le “reti” (in generale) giochino ruoli importanti per il nostro benessere; includendovi, ad esempio, la trasmissione di malattie, i sistemi di assistenza sociale, la diffusione di nuove idee, le coalizioni socio-politiche, i trasporti, le telecomunicazioni; ma anche, a livello più scientifico: l’interazione delle reti di proteine e la struttura del cervello. 
Ancora più importanti, poi, per il tema che stiamo trattando, sono le reti di neuroni che abbiamo nella nostra testa.
E’ difficile comprendere la complessità del cervello, perché si tratta di numeri talmente enormi da trascendere la nostra esperienza quotidiana (a meno che non siate dei cosmologi). Un cervello medio consiste di 100 miliardi di neuroni. Ogni neurone è connesso con altri (di solito da 1.000 a 10.000). Quattro neuroni possono connettersi in 63 modi diversi; oppure non connettersi affatto, per un totale di 64 possibilità. Aumentando il numero di neuroni, le connessioni possibili crescono in maniera esponenziale: il numero di combinazioni possibili, e quindi dei differenti stati cerebrali (che potremmo assimilare a “pensieri”) che ciascuno di noi può avere, eccede il numero di particelle note dell’intero universo.
Vediamo di capire le ragioni neurologiche per cui siamo attratti dai “social media”.
Vediamo innanzitutto il tema “importanza della rete”.  Immaginiamo di essere seduti a casa da soli; non abbiamo un umore preciso: non siamo né particolarmente felici, né particolarmente tristi, né arrabbiati, né eccitati. Abbiamo un sacco di amici, una rete, e possiamo chiamarli facilmente al telefono. Facciamo anche l’ipotesi che ogni amico sia “unidimensionale”, ossia che possa influenzare il nostro umore in una maniera specifica. Sappiamo, ad esempio, che, se telefoniamo ad Anna, ci farà sentire allegri. Ogni volta che parliamo con Giorgio, ci fa sentire tristi, perché rievochiamo un particolare fatto triste causato da un altro amico. Ogni connessione, a sua volta, è il risultato di decine, di centinaia di migliaia di connessioni che hanno influenzato il nostro amico, e i nostri amici, e arricchiscono la nostra esperienza. In particolare, le attività di “social media” che coinvolgono i nostri processi mentali sono:
  1. Fare broadcast di informazioni
  2. Ottenere feedback
  3. Osservare il broadcast di altri
  4. Confrontare se stessi con altri
Tutte queste attività coinvolgono la nostra mente in processi emotivi come stati d’animo, personalità, conformità sociale; e la maniera in cui ci autopresentiamo e gestiamo le varie connessioni.
Il nostro cervello, in questo modo, è bombardato da informazioni ed emozioni provenienti da un numero elevato di attori; verso cui possiamo scegliere di reagire, in modo trasparente, oppure, se vogliamo anonimo. Ebbene, il nostro cervello è affascinato dagli stimoli multipli; soprattutto se in rapida successione o contemporanei: un buon esempio sono le luci psichedeliche, e stroboscopiche. Che creano nel cervello fasi di stasi quasi ipnotiche.
Veniamo all’aspetto biochimico:
L’attrazione e la dipendenza dai social media è reale, grazie a due sostanze chimiche prodotte dal nostro cervello: dopamina e ossitocina.
  • Dopamina: gli scienziati la ritengono la sostanza chimica del piacere. Oggi sappiamo che questa in effetti crea il bisogno. La dopamina ci porta a cercare, a desiderare e inseguire. La dopamina viene stimolata dall’imprevedibilità, da piccoli frammenti di informazione e da segnali di ricompensa, tutte condizioni che rispecchiano i social media. Secondo alcuni studi della University of Massachussets medical school, la spinta della dopamina è così forte che viene dimostrato come per le persone sia più difficile astenersi dal postare su twitter, piuttosto che da alcool e sigarette.
  • Ossitocina: spesso viene indicata come la sostanza chimica dell’amore, perché viene rilasciata quando ci si bacia o ci si abbraccia… oppure, secondo il prof. Paul J Zach, della Claremont (USA) University, quando si posta sui social media! Secondo la ricerca, in 10 minuti di tempo trascorsi sui social, l’ossitocina aumenta del 13%, livelli equivalenti a quelli medi di una persona nel giorno delle nozze. E tutti i benefici che derivano dall’ossitocina – diminuzione dei livelli di stress, sentimenti amorevoli, fiducia, empatia, generosità – possono arrivare anche dai social. Come risultato, gli utenti diventano in genere molto più fiduciosi rispetto all’utente medio di internet. L’utente tipico di Facebook si fida il 43% in più rispetto ad altri utenti.
Quindi, tra dopamina e ossitocina, le attività da social network non solo procurano un mondo di sensazioni, ma diventa spesso anche difficile farne a meno.
Gli aspetti psicologici:
A questo punto diventa interessante analizzare le maggiori attività che svolgiamo online, per comprendere quali schemi psicologici ci stimolano a compierle.
Perché postiamo
Gli esseri umani dedicano circa il 30-40% dei loro discorsi a raccontare di se stessi. Online, però, la percentuale passa all’80%.  Online, poi, abbiamo il tempo per costruire e rifinire la comunicazione. E’ quello che gli psicologi definiscono auto-presentazione: mostrarsi per come si desidera essere visti.
La sensazione che ci offre l’auto-presentazione è così forte che ogni visualizzazione del profilo Facebook ha dimostrato di aumentare l’autostima. 
Perché condividiamo
Se ci piace così tanto parlare di noi stessi, che cosa ci spinge a condividere post altrui?
Divulgare un’informazione è un impulso automatico. Il pensiero della condivisione attiva i centri di ricompensa del nostro cervello, ancora prima di averla messa in pratica. Per prima cosa, il 68% delle persone afferma di condividere per dare agli altri un’idea più ampia di chi siano e delle cose che amano. Ma in genere, condividiamo perché questo ci permette di rimanere in contatto con chi ha postato quello specifico contenuto.
Quando condividiamo i contenuti giusti, otteniamo l’attenzione degli altri. Questo, almeno come dichiara il 62% delle persone, fa stare meglio con se stessi, perché ci si sente accettati. E come si guadagnano i consensi? Secondo una ricerca, è ritenuto interessante tutto ciò che risulta un attacco al mondo che conosciamo, a ciò che abbiamo sempre dato per scontato.
Perché clicchiamo “Mi Piace”

Il 44% degli utenti di Facebook apprezza con un “like” i contenuti pubblicati dagli amici, almeno una volta al giorno. Il 29% lo fa più volte al giorno. La ragione è che questo ci consente di mantenere le relazioni. Quando mettiamo un “like” è come se aggiungessimo valore ad un rapporto, rafforzando una vicinanza, seppur virtuale. Inoltre, si crea anche l’effetto reciprocità. Ci sentiamo quasi in dovere di restituire l’apprezzamento a chi lo ha dimostrato a noi, come se volessimo pareggiare la bilancia.

Lati positivi e negativi della questione
Quelli negativi li conosciamo (compresa la dipendenza), ma i social media possono anche unire. Quando si condivide una perdita, oppure un fallimento, si può sperimentare una grande solidarietà. Quando ci si sente insicuri, capita di rivolgersi a Facebook per trovare sollievo e i risultati pare siano migliori di qualunque altra attività di auto-affermazione. Inoltre, il tempo passato su Facebook ha a che vedere con l’empatia virtuale.
In definitiva, come in tutte le cose, i social sono uno strumento con enormi potenzialità: sta a noi saperlo usare nel modo migliore per arricchirci e rendere migliori noi stessi e i rapporti interpersonali, possibilmente anche quelli reali.

Fonti:
THE EMERGING NEUROSCIENCE OF SOCIAL MEDIA https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26578288
GENERAZIONE BIO : http://www.generazionebio.com

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